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ZI PIETR: LO STORICO FALEGNAME DI MACCHIA CHE ANDO’ OLTRE LA LAVORAZIONE DEL LEGNO

 

 

Quella di “Zi Pietr” è stata una vita intensa, avventurosa, piena di connessioni, vicende e storie che hanno modificato profondamente anche la vita del paese. Leggendo i racconti delle sue gesta e di chi lo ha conosciuto e amato, ciò che possiamo affermare con certezza è che non è mai stato un uomo banale.

Pietro Pirolli nasce a Macchia d’Isernia nell’estate in cui scoppia la Prima Guerra Mondiale, il 14 luglio 1914, da papà Vincenzo e mamma Antonia. Tre fratelli e una sorella compongono il suo nucleo familiare, che vive in una casa affacciata su Borgo Elena, adiacente alla chiesa di San Nicola. Nel 1927 termina la quinta elementare e inizia a frequentare la falegnameria Cicchetti di Isernia, per “imparare il mestiere”. Otto anni dopo parte per il servizio militare, direzione Casale Monferrato. Nel 1938 Cicchetti si trasferisce a Roma e lui, tornato in Molise, decide che la sua vita sarà da falegname. Acquista l’attrezzatura del suo maestro e apre una bottega a Macchia. Il mondo è però in subbuglio e nel 1940 Pietro deve partire per quella che ha sempre definito “la guerra prduta”. Viene fatto prigioniero dagli inglesi a Bardia, in Libia, e rinchiuso 5 anni nei campi di prigionia in Sud Africa, dal 4 gennaio 1941 al 15 marzo 1946. Un’esperienza terrificante, che gli vale la Croce al Merito di Guerra. Finita la guerra torna a casa dove, nel febbraio del 1949, sposa Maddalena, unione da cui nasce una figlia, Michelina.

Negli anni ’50, quando a Macchia l’elettricità è gestita dalla ditta privata Agostino Spinosa, Zi Pietr deve contribuire economicamente alla costruzione della linea elettrica dalla cabina collocata in località Taverna fino al centro abitato, perché altrimenti non ha forza motrice per la sua attività. Di fatto, l’elettricità a Macchia la porta lui. La sua bottega è un punto nevralgico, lì c’è il primo e unico telefono pubblico dell’epoca: funziona a scatti e i componenti della sua famiglia fanno da centralinisti del paese, provvedendo ad avvisare coloro che ricevono le telefonate, soprattutto dai parenti all’estero. Mensilmente va a Napoli in “corriera” per acquistare il materiale necessario alla sua attività, mentre se deve recarsi a Isernia lo fa in bicicletta, sostituita poi dal 1958 da una fiammante Lambretta, una delle prime acquistate a Macchia. Gli studi e i disegni fatti negli anni di prigionia gli tornano utili per affinare la sua arte, che viene riconosciuta e apprezzata anche nei paesi limitrofi. Produce opere meravigliose interamente a mano, partendo da semplici pezzi di legno: mobili, porte, finestre, ma anche “’ru taut”, cioè le bare, in cui spesso i bambini che passano nella sua bottega si nascondono per scherzo, sotto il suo sguardo divertito. Il carro, che trasporta ancora oggi la statua della Madonna delle Valli, durante la processione tradizionale delle Feste di Agosto, è sempre stato affare suo.

All’inizio degli anni ’80 lascia l’attività per problemi di salute.
È stato il falegname storico del paese, questo è indubbio, ma il suo ruolo è andato anche oltre la semplice lavorazione del legno, aggiungendo quel qualcosa in più che rende il racconto della sua vita ancora più affascinante. 

“Zi Pietr” ci saluta il 24 novembre del 1987.

 

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IL BAR DI ZI PEPPNELLA

C’era un tempo in cui il bar era il cuore pulsante del paese e attorno ad esso ruotava la vita dell’intera comunità. Avvicinando l’orecchio alle pareti di quel locale si poteva sentire distintamente l’eco di storie mirabolanti, di lavoro, di fatica e di famiglia. Oggi che i bar soffrono a causa del #Covid casca a pennello la vicenda umana di Giuseppina Mainardi, conosciuta da tutti come Zì Peppnella, classe ‘1925, che più o meno nella metà degli anni ’50 del secolo scorso prese in mano il bar della piazza di Macchia.

Gestire un bar è oggi una faticaccia, allora era un’impresa. Prendete il ghiaccio, mica c’erano le macchine per farlo. Il marito, Generoso De Luca detto “Tito”, partiva di notte con l’asino in direzione Mainarde, carico di tini di legno al cui interno metteva la paglia su cui avrebbe poi collocato il ghiaccio, conservandolo intatto fino a Macchia. Peppnella faceva un buco con la pentola di rame nel ghiaccio, per farla congelare, e iniziava a montare il gelato. Due gusti, crema e limone. Due misure, 5 e 10 lire.

La produzione del bar seguiva i ritmi delle stagioni e così d’estate, a luglio, Peppnella essiccava il grano davanti casa per produrre la farina, che sarebbe servita per cucinare. Era presenza fissa al mulino e coltivava l’orto, per avere sempre ortaggi freschi. Era una donna molto ospitale e amava accogliere persone in casa. Spesso il maestro Giovanni Siravo, quando rientrava da scuola, passando davanti casa sua sentiva odore di cucinato e chiedeva: “Peppiné che hai preparato a pranzo oggi?”. Lei rispondeva “Sagne e fagioli!” oppure “Polenta”” e lo invitava a tavola.

Peppnella amava curarsi e aveva un appuntamento fisso: con la parrucchiera, ogni settimana, perché i capelli bianchi non le piacevano proprio. Adorava i vestiti colorati e le terme di Riccione, dove si recava ogni anno in vacanza.

Ha gestito il bar per circa 25 anni, fino al novembre del 1980, quando il locale è passato nelle mani di uno dei suoi sette figli, Italo.

È andata via il 9 giugno del 2014, appena un mese dopo il suo caro Tito.

 

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LE INCREDIBILI AVVENTURE IN TERRA E MARE DI ALEO ORSANO, DETTO UCCITT’


Si chiamava Aleo, ma come spesso accade nei piccoli paesi il nome si è trasformato e il vezzeggiativo ha preso il sopravvento: Leuccio, Uccio, Ucc’, Uccitt’. E come Uccitt’ è ricordato ancora oggi, 18 anni dopo la sua scomparsa. Una vita lunga 82 anni e davvero fuori dal normale, quella del signor Orsano, venuto al mondo in una famiglia poverissima il 17 luglio del 1919.

Il padre è calzolaio e la famiglia non se la passa troppo bene economicamente: se la sera c’è in tavola qualche patata è oro. Poi, come ha raccontato lui stesso, dopo la “cena” - se così si può chiamare - si esce in paese alla caccia dei gatti. È sempre carne e in quel periodo serve. Quando ha 14 anni Uccitt lavora a Caianello (CE) e ci va in bici, 35 km all’andata e 35 al ritorno. Ogni giorno, sempre con la stessa fame addosso.

Per cercare di scrollarsela via, a 18 anni si arruola nella Marina Militare. Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, è a Trieste e davanti a sé ha anni di guerra, in cui partecipa alle principali battaglie navali nei mari europei: lo sbarco in Albania, Ponte Stilo, Capo Teulada, Capo Matapan. Lì, il 28 marzo 1941, muoiono sotto i suoi occhi più di 2300 marinai italiani. Una disfatta. In quell’occasione la “Vittorio Veneto”, una corazzata di 35.000 tonnellate di stazza, è gravemente danneggiata. Dopo Capo Matapan, la Vittorio Veneto viene trasferita in cantiere navale mentre Uccitt’ si imbarca, in qualità di capo-cannoniere, su una piccola unità militarizzata, la “Porto di Roma”, diretta a Rodi, nell’Egeo. Conosce una ragazza di religione greco-ortodossa, si innamorano e si sposano, proprio con rito ortodosso.

Ad armistizio firmato è sull’isola di Lero dove, nel frattempo, si sono stabiliti gli inglesi; la moglie è ancora a Rodi, dove invece sono stanziati i nazisti. L’Italia e la Germania diventano nemici e i tedeschi affondano la sua nave, vicino alla costa turca. Uccitt’ passa oltre 20 ore in mare, aggrappato a una tavola, viene recuperato da una vedetta turca, che lo porta a Bodrum. È sotto il comando inglese, ma anche da loro è considerato un nemico, sebbene sia stato firmato l’armistizio. Non obbedisce all’ordine di combattere contro gli italiani e finisce nel campo di prigionia denominato “305 Criminal Camp”, in Egitto. La fame torna e arrivano le malattie. Con l’aiuto degli arabi – che ci procuravano aghi, stagno e saldatori – Uccitt’ e i suoi commilitoni inizia a costruire alambicchi per la produzione di alcool: il distillato, prodotto anche con le feci, viene venduto alle sentinelle inglesi.

Un giorno – stanco di sopravvivere - si arrampica sull’asta per l’alzabandiera, ad un’altezza di 10 metri, e comincia ad urinare sulle teste dei soldati inglesi. Lo portano in manicomio con la camicia di forza. Inizia il suo ennesimo incubo. Dopo alcuni mesi un medico inglese lo porta a casa sua. Il medico diagnostica la sua “pazzia”, ma una “colonnellessa” inglese, convinta che fosse un simulatore, lo rispedisce nel campo di prigionia. Ma anche stavolta non si arrende: con due amici organizza una fuga e grazie all’aiuto degli egiziani riesce nell’impresa.

Al termine di altre peripezie torna a Roma, vive a Forte Boccea, trova un lavoro, incontra e si innamora di un’altra donna. Dopo qualche anno di tribolazioni e incartamenti – perché Uccitt risultava già sposato –, riesce a sposare la donna della sua vita, madre della sua unica figlia. La vita ha però in serbo per lui ancora un tragico scherzo: dopo pochi anni la donna, ancora giovane, muore di cancro. A quel punto, insieme alla figlia si trasferisce a Macchia d’Isernia, dove vive il resto della sua straordinaria vita e muore, il 25 febbraio del 2002.

“Posso dire di aver vissuto una vita molto intensa” scrive Uccitt’ nelle sue memorie trascritte. Come dargli torto.

 

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